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The Shape of… wait, what? La recensione di Cold Skin

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Ciao amici! Quanto tempo era che non vi compravo un redattore nuovo? Sarà questo tempo pazzerello ma mi sentivo generoso. Apro una parentesi: (la gente ogni tanto mi critica perché invece che selezionarli tramite regolare concorso e prove scritte io faccio lottare i candidati a morte nell’arena con lance e scudi, ma ora che tutto il mondo ha visto che lo fanno anche a Wakanda che è il paese più avanzato e tecnologizzato al mondo spero stiano zitti. Chiudo la parentesi). Comunque: il torneo è stato vinto con impressionante abilità dalla valorosa Xena Rowlands. Accoglietela con il calore delle grandi occasioni. (Nanni Cobretti)

Tra le tendenze di questa stagione Oscar autunno inverno 2017/2018 c’è quella di accusare di plagio, più o meno ufficialmente, quel patatone di Guillermo del Toro per il suo The Shape of Water. Il suo film sarebbe copiato da una pièce teatrale del 1969, da un cortometraggio di uno studente di cinema olandese del 2015, da Delicatessen di Jean Pierre Jeunet (falso, perché The Shape of Water è palesemente Amélie ma un po’ più blu: Jean Pierre, go home, you’re drunk, non sai nemmeno distinguere tra i tuoi stessi film). Sarebbe Splash al contrario, La sirenetta al contrario, King Kong con il mostro della laguna nera al posto dell’amato scimmione, e quindi allora forse pure E.T. e La bella e la bestia, ma con l’acqua e la guerra fredda al posto degli alieni e del Settecento francese, e chiaramente (mi par quasi scontato dirlo) Le ragazze della Terra sono facili e Howard e il destino del mondo. E allora perché non Cold Skin, co-produzione ispano-francese diretta da Xavier Gens, uno che – come Del Toro – viene dal cinema di genere (horror) ma fa un filmone storico-romantico, con attrazione interspecie tra un essere umano e una creatura acquatica, un antagonista brutale e folle incapace di accettare la diversità e dominato dalla volontà di sopraffazione, e perfino la stessa palette di blu?

nel blu dipinto di blu

A parte l’ovvio, intendo, e cioè che i due film sono stati realizzati più o meno in contemporanea, hanno fatto il loro giretto di festival in contemporanea (peraltro incrociandosi a Sitges) sebbene con risultati vagamente differenti, e quindi non potevano essersi vicendevolmente copiati, per ragioni pratiche e cronologiche. E però chi ci assicura che Del Toro non si sia fatto ispirare, già che c’era, dal romanzo La pelle fredda, bestseller di Albert Sánchez Piñol di cui Cold Skin è appunto l’adattamento? Eh? Quel copione ingordo di mostarda*.

[* forse non tutti sanno che: quando Del Toro, lo scorso settembre, ha vinto il Leone d’oro alla 74esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha fatto un commovente discorso sull’importanza di avere fiducia in ciò in cui si crede, nel suo caso i mostri, e la traduttrice della 74esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ha simultaneamente trasformato il tutto nell’importanza di avere fiducia nella senape, ovvero un clamoroso caso di fat shaming lost in translation]

Ma forse – dico, forse – c’è che Cold Skin potrebbe essere accusato, a sua volta, di non essere proprio un campione d’originalità. Ambientato nel 1914, mentre i giornali strillano l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo e tumultuose folate di Prima Guerra Mondiale soffiano sull’Europa, il nostro protagonista senza nome, giovane e tormentato, è diretto su un’isola sperduta del Circolo polare artico, dove rimarrà, solo, per un anno, ad appuntare attentamente informazioni su venti e brezze marine, una professionalità particolarmente ambita nel primo Novecento e generalmente catalogata sotto l’hashtag #spasso. Deposto sull’isola da un capitano sufficientemente simile al McAllister dei Simpson, trova ad attenderlo un solo altro tizio, Gruner, un guardiano del faro brutto, sporco e sfattissimo, che parla di sé in terza persona, si aggira frequentemente nudo nonostante il clima ostile e, quantomeno a giudicare dalle scelte decorative, non pare particolarmente amichevole.

you’re welcome!

Quando gli chiedono che fine abbia fatto il precedente osservatore di venti & maree, Gruner borfonchia evasivo «tifo», in modo da non destare assolutamente alcun sospetto, e si allontana fischiettando indifferente. Il nostro eroe – tutto tormento, estasi e Sturm und Drang – decide comunque di fermarsi sull’isola (nonostante il saggio McAllister scuota la testa preoccupato sullo sfondo, e nonostante la casa in cui dovrebbe vivere è evidentemente stata messa sottosopra da qualcosa di potente e orribile, e nonostante il diario del predecessore riporti disegni inquietanti e il terrificante slogan creazionista “Darwin aveva torto”), perché vuole vivere in saggezza e in profondità, succhiando tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte di non esser vissuto. Cala il buio, e l’arcano si svela: ogni notte dalle onde in tempesta emerge un’orda di creature anfibie, affamata di sangue umano e distruzione. Il nostro è quindi costretto a un’alleanza, e a una convivenza forzata, con Gruner, che al rituale notturno di far mattanza di mostri marini ha preso un certo gusto; non solo, ha pure addomesticato/imprigionato/schiavizzato una delle creature di sesso femminile (chiamata Aneris, cioè Sirena al contrario), che tratta un po’ come una serva, un po’ come un animaletto, e un po’ la stupra, di tanto in tanto, quando gli va.

Vedete che basta questo veloce riassunto di trama per individuare una considerevole pila di suggestioni pregresse, soprattutto letterarie (che quindi forse stavano già nel romanzo? Non lo so, non l’ho letto, in caso ditemelo nei commenti). Ci sono i mostri antichi lovecraftiani, c’è Il faro di Edgar Allan Poe, Gruner oltre che un Babbo Natale sbronzo in congedo è chiaramente anche il capitano Achab di Moby Dick, e Aneris è tra le altre cose pure Venerdì di Robinson Crusoe, ci sono un po’ di Isola del dottor Moreau e il senso d’avventura e d’esplorazione di Jules Verne, la voce fuori campo del tormentato protagonista è tutta romanticismo ottocentesco e romanzoni epistolari, e via elencando. Xavier Gens (che dev’essere comunque un tipo okay: vi riassumerei il suo curriculum, ma l’ha già fatto meglio di chiunque altro il sommo Cobretti qui, quindi chi sono io per) raddoppia, aggiungendoci il carico visivo: una bella citazione nietzschiana nell’incipit (quella dell’abisso che scruta dentro di te, non quella della stella danzante), riferimenti pittorici smaccati al romanticismo tra William Turner e Caspar David Friedrich, un brulicar di creature in CGI che somiglia a un formicaio zombie e un design dei mostri blu che evoca i Na’vi di Avatar. E in tutto questo, per quanto mi riguarda, non c’è nulla di male a prescindere, tanto più che proprio sul piano visivo secondo me il francese si gioca le sue carte migliori – certo, Lanzarote aiuta – costruendo la giusta atmosfera sospesa tra senso del sublime e di post apocalisse.

bello questo viandante sul mare di nebbia

E si vede che è pure bravo a fare di necessità virtù con un budget non stratosferico, e ad applicare la solita infallibile regola: se non ti puoi permettere di mostrare tutto quanto come si deve, allora mostra poco e lavora sulla suspense di ciò che non si vede, non si conosce, s’intuisce appena. Non è tanto, in fondo, che Cold Skin sia derivativo, quanto che tutto quest’insieme di “derivazioni” non sempre si tiene insieme benissimo, e anzi a volte diverse suggestioni scalpitano per trascinare il film in direzioni diverse, e opposte. È un equilibrio difficile su cui restare, soprattutto se – come suppongo avrete intuito a questo punto – ai vari livelli di citazionismo si applicano, di pari passo, differenti strati di metaforone. Tra i venti di Prima Guerra Mondiale e i venti di tempesta, tra l’assedio del faro e quello delle trincee, tra la sete di sterminio di Gruner e i genocidi del colonialismo, tra la discesa agli inferi dell’animo del protagonista e un’intera umanità sull’orlo dell’autodistruzione, tra la repulsione/fascinazione per Aneris e l’attrazione/terrore per l’ignoto e il diverso, ti vien da dire, dal profondo del cuore: Xavier, anche meno.

Xavier, anche meno

Perché poi il film per forza di cose ne risente, come se si sentisse in dovere di far seguire sempre l’approfondimento filosofico al momento di puro intrattenimento, di bilanciare il gusto per il fantastico con la sottolineatura seriosa (una dicotomia che sta pure a livello superficiale nel production design: evocativissimi i paesaggioni illuminati da contrasti tumultuosi di luce e ombra e nuvoloni e scogliere, ma è un attimo che la stessa attenzione applicata all’arredamento d’interni ti teletrasporta nel reparto shabby chic di un negozio Maisons du Monde. Per un film di mostri, apocalisse e senso di fine della storia, non guasterebbe un po’ più di sporcizia).

non dire gatto

Un’ultima nota super-positiva voglio però riservarla ad Aneris, e alla sua interprete Aura Garrido (ma i tre attori protagonisti sanno tutti il fatto loro, soprattutto Ray Stevenson/Gruner): sarò romantico-nostalgica come Xavier Gens, ma il trucco prostetico quand’è fatto come dio comanda per me batte ancora tutta la computer grafica del mondo. Soprattutto se, come in questo caso, l’attrice fa contestualmente un gran lavoro sugli atteggiamenti del corpo, i movimenti, il modo di stare nello spazio. A metà tra un gatto e una lucertola, un po’ teatro-danza e un po’ atleta, la sua performance muta (e sensuale, così ci si riaggancia pure al mostro di The Shape of Water e al nostro amico Guillermone) è almeno metà del fascino di Cold Skin.

“The Shape of Sturm und Drang”
Xena Rowlands, i400calci.com

>> IMDb | Trailer

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